Matita

Mi sono accorto di amarla un lunedì mattina alle nove e trentaquattro minuti.

Si chiama Matilde.

È una collega di ufficio.

Ha un sorriso un po’ triste, che mi ricorda il

freddo d’Islanda, quello che un po’ ti rinvigorisce e un po’ ti penetra nelle ossa.

Ha sempre i jeans blu, alti.

Non è quasi mai truccata, in ufficio.

Forse mi piace per questo.

O forse perché non dà troppa confidenza a nessuno.

Solo quel gelido sorriso, che a me sembra sempre un po’ triste.

Però quanto è bella.

Questo lunedì alle nove e trentaquattro minuti mi sono accorto di amarla.

Perché, in quel l’esatto istante, Matilde ha fatto un gesto perfetto, così perfetto da catturare la mia intera attenzione.

Si è raccolta i capelli e li ha fissati in testa con una matita.

Una matita di quelle gialle e nere, da disegno.

Quella matita sembrava nata per stare tra i suoi capelli castani, come se non fosse mai stata fabbricata per consumare la grafite sui fogli di carta, ma unicamente per tenere insieme ciocche di capelli scomposte.

Quel gesto così veloce, naturale, abitudinario, mi ha fatto innamorare di Matilde.

Non gliel’ho detto.

Ci ho pensato tutta la mattina.

Ma come si fa a dire alla donna che ami, a quella splendida creatura dal sorriso triste, che la ami per quella stramba abitudine, per quella matita che fa da ornamento ai suoi capelli?

Come potevo dirglielo senza farla scappare, senza sembrare pazzo?

Glielo dirò domani.

Così ho pensato.

Domani Matilde non c’era.

L’hanno trovata morta la sera prima.

Una matita piantata nella giugulare.

I capelli in disordine.

Matilde aveva un sorriso triste e solo una matita a farle compagnia.

Nessuno le aveva mai detto quanto quella matita la rendesse bella.

E lei non l’aveva mai saputo.

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